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Massimo Btg.Tiràno
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Fiume: la costruzione dei bunker.

Compiendo ricerche su militari italiani uccisi nel dopoguerra a Grobnico (Yugoslavia) in prigionia, ho trovato in Internet questa interessante testimonianza sulla costruzione di bunker nella zona della nostra amata Fiume nel periodo della R.S.I. :


“La carta

Era una vera fortuna che la porta dell'ufficio progettazioni fosse doppia, così quando si sentiva aprire quella del corridoio si poteva correre immediatamente ai ripari, prima che si spalancasse la seconda e comparisse l'immancabile scocciatore della nostra quiete. Per maggior sicurezza, Lucio aveva escogitato un metodo semplicissimo ma efficace per rendere meno facilmente accessibile il nostro covo, mettendo di traverso tra una porta e l'altra, come se si fossero spostati accidentalmente, gli oggetti più disparati: la stadia, il cavalletto del tacheometro, le stanghe metriche o, in mancanza di meglio, degli ombrelli, in modo che qualunque intruso fosse costretto a sbatterci contro e ad armeggiare imprecando per qualche minuto contro la malasorte per districarsi prima di poter entrare. Anzi, il più delle volte in questi casi era uno di noi che si precipitava alla porta a far maggior confusione, nel tentativo di rimettere in sesto i vari aggeggi, profondendosi in scuse. La qual cosa smorzava sul nascere i fuochi di furore dei vari Bauleiter e Baufà¼hrer, e dava tempo agli altri di sistemare le cose per benino all'interno dell'ufficio. In tal modo, a parte le difficoltà  per arrivarci, l'ufficio progettazioni poteva vantarsi di aver sempre dato l'impressione di un'alacrità  lodevolissima nell'espletamento delle sue funzioni, con i suoi tre componenti sempre chini sui tecnigrafi a studiare l'ultimo tipo di bunker.
A me, veramente, le funzioni dell'ufficio progettazioni non appariva tanto importante quanto si voleva far credere, anzi, ed è la pura verità , non apparivano importanti per niente, dato soprattutto che di progettazioni non se ne facevano affatto e tutto il lavoro si limitava a lucidare degli schizzi belli e pronti in tutti i particolari costruttivi nonché a segnare, ogni tanto, su una carta topografica militare al 25.000, un circoletto rosso che significava l'edificazione avvenuta di un bunker in più. Saltuariamente si doveva uscire per le campagne, sulle coste o in alto sui colli circostanti, per tracciare sul terreno l'allineamento di qualche di qualche casamatta o per controllare se l'una o l'altra infame galleria proseguiva nella direzione giusta, ma si trattava più che altro di semplici puntate di breve durata.
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Il Park Hotel, l'albergo dove l'organizzazione Todt aveva piantato le tende, era infatti un dei più belli della costa, con terrazzi direttamente sul mare e il bagno proprio, con cabine trampolini nonché le reti contro gli squali.
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Nel bel mezzo di una situazione di questo genere, che potremmo definire piuttosto squallida, con i tedeschi per tutte le strade e con i partigiani slavi per tutti i boschi, i divertimenti erano piuttosto scarsi, anzi, quasi inesistenti. Bisognava accontentarsi allora di piaceri più sottili, come ad esempio quello dei blocchi di prova.
Si trattava qui di certi cubi di calcestruzzo che si dovevano confezionare sui vari cantieri di costruzione dei bunker in apposite forme, prelevando il quantitativo necessario a riempirli direttamente dallo stesso impasto adoperato per la gettata delle varie strutture dell'opera. Era , tutto sommato, una questione piuttosto amena. Si arrivava dunque sul posto e subito si scaricavano dalla macchina le forme; si annusava un po' in giro, si osservava con blando interesse l'impasto che si stava gettando, si facevano quattro chiacchiere col capocantiere e poi ci si metteva, per così dire, al lavoro. Piazzate in terra le forme, esse venivano coscienziosamente riempite da un manovale, dopodiché si attendeva che il calcestruzzo facesse un po' di presa per poterci incidere la data e gli altri dati necessari di riferimento. Senonché, a questo punto, arrivava come una saetta il tedesco della Todt, che si era perduto tra i cespugli con la ganza, e si metteva a sbraitare orrendamente che qui e che là  e scaraventava tutto all'aria. Poi versava di persona un intero sacco di cemento in più sull'impasto che si rimestava in quel momento e ne riempiva di nuovo le forme. Alla fine, ponendo il piede su una di esse, esclamava, come per insegnarci: così si fa!
Il più bello veniva quando, da chissà  dove arrivava il responso: fra tutte le centinaia di blocchetti inviati alla prova non ce n'era mai uno solo che rispondesse ai voluti requisiti di resistenza: quando arrivavano al cinquanta per cento era già  molto.
Il Baufà¼hrer Schott era verde e parlava di sabotaggi, deportazione e morte. Sicché volle provvedere di persona. Ci recammo sui cantieri con lui, indignatissimo, e io, che masticavo alla meglio un tedesco maccheronico, dovevo tradurre le sue impetuose allocuzioni alle maestranze.
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Dopo essersi sfogato in tal moro, eccoti Schott scaricare brontolando le forme, porle in terra - tutto di persona alla forsennata - e riempirle con l'impasto che gli operai, naturalmente dietro suo ordine, avevano notevolmente arricchito per l'occasione. Appena le aveva riempite, il Baufà¼hrer si faceva portare davanti un sacchetto di cemento e ne versava sopra quelle maledette forme altre generose manciate e poi rimestata a dovere il tutto, in barba a Hitler e a tutta la sua congrega. Dopo di ciò, si ritornava gloriosamente alla base, e son sicuro che nel vecchio cuore del valoroso Baufà¼hrer c'era la serena quiete di chi ha compiuto il suo dovere verso la patria fino in fondo.
Il Baufà¼hrer Schott, reduce dalle portentose e ciclopiche opere del vallo atlantico - ne parlava di continuo - era sempre animato da sacri furori patriottici e così, sulle orme dei fratelli, aveva straordinarie tendenze a riformare il mondo. Avendo in certo qual modo capito però che da solo non ce l'avrebbe fatta mai e che conveniva cominciare dalle piccole cose, provvide ad istituire un apposito ufficio, dove furono raccolte tutte le carte topografiche e i piani, che egli considerava preziosi segreti militari e che magari - concediamoglielo - lo erano davvero, almeno un pochi, per davvero. Consegnò quest'ufficio ad una specie di aborto di ausiliaria tedesca con degli orrendi stivaloni di pelle nera, con l'ordine di catalogare tutto e di segnare quando perché e a chi veniva consegnato ogni singolo documento, con l'indicazione pure dell'avvenuto rientro del medesimo.
Ciò rappresentò per noi una scocciatura notevolissima perché, tramite questa procedura, si sarebbe potuta inequivocabilmente valutare la reale entità  del nostro lavoro, che equivaleva francamente pressoché a zero. E , oltretutto, ci costringeva a sbrigare in pochi minuti quello che prima, allorché tutto era nelle nostre mani, aveva richiesto giornate intere. Tanto per liberarci al più presto di quelle stramaledette carte che ora, per via del nuovo ufficio, parevano scottare.
Fu proprio in quel periodo che ebbi sentore che qualche cosa si muoveva nelle torpide coscienze dei miei concittadini. Niente di chiaramente espresso: solo mezze parole, vaghe allusioni al come sarà  come non sarà ; occhiate espressive di bottegai con i clienti di fiducia, qualche frase tra conoscenti, lasciata là  coi puntini di sospensione. Con gli amici fidati, si capisce, era un'altra cosa: si smoccolava apertamente contro questo e contro quello, ma era ugualmente difficile individuare, data la bella scelta, e con l'aria che tirava, i destinatari più meritevoli delle nostre stramaledizioni. Di dire che cosa si agitasse nelle frattaglie dei miei concittadini non c'era insomma da sperare, in considerazione anzitutto della loro eterogeneità  etnica e poi della generale confusione delle idee.
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Così, dato che lavoravo alla Todt, da uno della banda mi fu proposto di trafugare una carta topografica delle fortificazioni del litorale, da inviare - mi si disse - alle formazioni partigiane del Friuli. Mi si fece il nome della brigata Osoppo, dalla quale sarebbe poi stata inoltrata agli americani bombatoli. Ed io che ero pur sempre figlio, sebbene solo adottivo, di un popolo di eroi, subito pensai: ecco una buona occasione per far qualcosa di utile al prossimo in questa sporca vita. E non pensai per nulla alla deportazione e alla morte. Non è però che mi apparisse molto chiara l'utilità  di una simile carta in mano agli americani bombatoli, tanto più che vi erano rappresentate delle fortificazioni che qualsiasi passante che non fosse totalmente cieco poteva vedere benissimo ad occhio nudo.
Ma è l'insieme delle fortificazioni che sfugge al passante - mi fu detto, e io tacqui, perché in fondo anche questo poteva essere vero.
Ma l'argomento che mi decise lo trovai tutto da solo. Sta' a vedere - mi dissi - che se gli passo una bella carta con tutti quei cerchiolini rossi sparsi dappertutto dove sono, gli americani la smetteranno di sganciare bombe a casaccio sulle case della gente e cercheranno di colpire i bunker.
A ripensarci ora, un'ingenuità  di questa portata è roba da chiodi. Bisognava proprio avere il cervello bacato al massimo per dimenticare la spartizione del mondo perpetrata a Yalta e, soprattutto, la guerra dei nervi!
Comunque la decisione fu presa. Se tutto ciò fosse stato richiesto e deciso un mese prima, la cosa sarebbe stata di una facilità  tale da compierla col sorriso sulle labbra, ma ora, con quella cerbera di tedesca carica di registri non c'era da prenderla alla leggera. E mica possedevo la microcamera nella stilografica, che avrebbe facilitato enormemente la cosa. Qui si trattava di fregare la carta così com'era, lunga un metro e larga almeno settanta centimetri, e di inoltrarla tal quale.
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Da qualche tempo anche i tedeschi avevano finalmente capito che le bombe su Susak non cadevano mai e perciò se la prendevano con più calma allo squillo delle sirene, salvo a precipitarsi nei sotterranei lo stesso, quando gli aerei apparivano per davvero.
La cerbera stava giusto annotando nel registro la riconsegna dello schizzo, ed io ero lì in piedi appoggiato con la schiena allo scaffale delle carte, dove esse erano tutte belle ripiegate in piedi l'una accanto all'altra, quando si udì il ronzio degli apparecchi da sud. Subito la cerbera si alzò e si avvicinò alla portafinestra, ne scostò le tendine e guardò fuori in alto; poi aprì la porta e uscì per vedere meglio, sul balcone.
Di quel momento io approfittai per passare la mano sinistra sotto l'ascella destra, sfilare la carta che mi interessava dallo scomparto individuato da tempo, e farla sparire sotto la giacca. Questione di tre secondi. La cerbera rientrò rapida, chiuse il registro in fretta e furia, farfugliò qualcosa e mi trascinò fuori. Il ronzio degli apparecchi era nel frattempo diventato un rombo.
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La carta mi scricchiolava sulla pancia e nel gioco feci un mucchio di strafalcioni. Finalmente suonò il cessato allarme. Dissi che dovevo aver sbagliato a prendere una misura al bunker 326 a Cantrida perché i conti non mi tornavano e che era necessario che andassi a riprenderla.
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Attraversai tutta Susak, passai il ponte sull'Eneo e con le budella che mi ballonzolavano sul pavé arrivai alla stazione. Là  c'era la manifattura tabacchi. L'amico del Carlo che mi aveva chiesto per primo la carta stava lì, essendo figlio di un impiegato della fabbrica.
Entrai nel buio portone e suonai a pianoterra. Comparve proprio lui e gli sibilai: ho la carta nella pancia.
Impallidì. Forse non ci pensava più neanche lui, forse pensava che non ci sarei riuscito. Disse solamente: entra.
Mi portò in una stanza semibuia piena di libri di ragioneria. Mi sfilai la carta dalla pancia e gliela mostrai, spiegandola in tutta la sua ampiezza.
E' aggiornatissima - dissi.
Egli ci diede un occhiata appena, poi la ripiegò in fretta come se gli facesse un po' schifo. Mi diede l'impressione di essere molto preoccupato. Mi disse soltanto: bene, ora va'.
E io me ne andai come alleggerito da un grosso peso. Rimontai in moto e corsi fino a Cantrida al bunker 326. Lì feci finta di prendere alcune misure e me ne ritornai verso il Park Hotel. Ma non ci andai direttamente.
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Mi allontanai col cuore un po' pesante. Avevo fatto bene?, avevo fatto male a fregar la carta? E ora che cosa sarebbe successo? Quando sarebbe saltato fuori il rospo? E con quali conseguenze?
Ma presto mi misi l'animo in pace: avevo fatto o non avevo fatto quello che secondo la banda del Carlo era una specie di sacrosantissimo dovere di concittadino? Sì, l'avevo fatto, ed ora toccava agli altri fare il resto. Finii addirittura per dimenticare l'episodio e quando ne avevo un passeggero rigurgito pensavo gongolando alle maledette noie che avrebbe avute la cerbera quando il fattaccio sarebbe venuto a galla.
Passò qualche mese e nel frattempo io venni distaccato dal Park Hotel e assegnato ad un'impresa tedesca militarizzata, sempre a Susak, sulla stessa strada che portava al Park Hotel, ma molto più vicino al ponte sull'Eneo.
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Mi affacciai e mi chiamarono giù. Scesi. Lucio mi disse: siamo stati convocati alla Gestapo; dicono che è sparita una carta; l'hanno ritrovata nella latta di una “mlekariza” mentre passava le linee.
Mi sentii come se qualcuno mi avesse assestato una mazzata in mezzo alla fronte. Riuscii solo a dire porcaeva. Non credo che la mia reazione fosse loro passata inosservata. Dovevo essere impallidito paurosamente.
Ritornai su, ma poi ridiscesi e li seguii alla lontana. La Gestapo era in via Roma, in un palazzo nuovo sotto alle carceri e al tribunale, presso la Porta di San Vito, assunto già  a trista fama. Vidi che vi entravano . Io proseguii e salii al parco. Dalla balaustrata che dava su via Roma, proprio di fronte al tribunale, guardai in giù, non staccando mai gli occhi dalla porta per cui erano entrati. Passò non so quanto tempo: un'eternità . Me la facevo addosso dalla paura. E se li trattenevano? E se parlavano? Ma che cosa avrebbero potuto dire se non sapevano niente? Avevo fatto bene, in mezzo a tante altre cretinate, a non confidarmi con loro. Così almeno non avevano niente da raccontare. Ma se la Gestapo risaliva a me, cosa per nulla difficile, io come me la sarei cavata?
Dirò che non ne so nulla - conclusi.
Strana cosa, la carta nella latta di una “mlekariza”. Ma dovevano scegliere vie così tortuose per recapitarla in Friuli?
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Ed ora eccomi qua ad attendere due amici che erano alla Gestapo senza che avessero la minima colpa di quello che era successo. Possibile mai che la questione della Brigata Osoppo fosse tutta una fregatura? Ma allora l'amico dei tabacchi aveva fatto il doppio gioco, rifilando la carta ai crucchi slavi…
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Quando voltai l'angolo che dava sulla lunga scalinata che univa la strada inferiore con un'altra che menava ai boulevard, mi si presentò uno spettacolo agghiacciante: la scalinata era una cascata di cadaveri ammonticchiati gli uni sugli altri scompostamente. Una ventina almeno. Mi portai la mano alla bocca per non urlare di raccapriccio, mentre con l'altra mi appoggiavo a una bugna del muro per non stramazzare stecchito. Nella massa informe qualcosa si muoveva ancora debolmente. Mi sforzai di distogliere gli occhi da quella visione, quindi ritornai sui miei passi, annichilito, senza la forza di allungare il passo. Arrivai come in un sogno brutto alla mensa, mentre dentro di me le budella reclamavano un vomito che non veniva. Dovevo essere pallido come i cadaveri della scalinata. Il padovano mi domandò, di tra le sue maledette briciole: li hai visti?
Accennai di sì - per forza li avevo visti: a metà  scalinata c'era l'ingresso del nostro ufficio - e mi guardai attorno. Nel dimesso locale - un vecchio baraccone - ai lunghi tavoloni, sulle panche erano seduti pochi civili fra tanti soldati tedeschi della Todt, tutti anziani e inadatti ormai ad ammazzare il prossimo o a farsi ammazzare sui campi di battaglia.
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Chi erano? Ostaggi. E perché? Non si sa, ma pare si trattasse d'una rappresaglia per un'imboscata a Luban.
Meno male - pensai - la carta non c'entra.
Alle due rientrammo tutti all'ufficio. I cadaveri erano ancora lì, tutto era immobile ormai. Dentro nessuno parlava, né tedeschi né noi, si cercava di lavorare, chini ai tavoli.
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Mi restava però addosso la smania di sapere come mai la carta fosse andata a finire nella latta di una “mlekariza”. Quando arrivammo in via Pomerio ci lasciammo ed io corsi dal Carlo. Cadde dalle nuvole. Mi disse che, per quel poco che sapeva lui, la carta doveva venir consegnata al parroco dei Giardini, un fratello del quale era nella Brigata Osoppo. Andammo ai Giardini, una sgropponata furibonda.
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In quel periodo conobbi per ragioni d'ufficio un ufficiale dell'esercito tedesco, il maggiore Ahrens, carico di cicatrici: era un ingegnere molto in gamba, addetto al tracciamento delle fortificazioni più impegnative, come quelle sui boulevard di Susak e sul colle di Tersatto, dalle gallerie e postazioni più complicate della norma. Mi assegnò il compito di rilevare altimetricamente e planimetricamente tutta la collina sovrastante il santuario di Tersatto, per poter tracciare delle rampe sotterranee dalle galleria alle postazioni, sulla scorta di questo rilevamento. Avrei dovuto fare tutto in tre giorni. Chiesi ed ottenni l'aiuto di Lucio. Ci provammo, ma come era possibile tracciare in soli tre giorni delle curve di livello a equidistanza di un metro in una collina tutta stramba, sghemba e stracarica di alberi? Alla fine, avendo rintracciato una vecchia carta quotata della zona, risolvemmo di ingrandirla e di interpolare le curve di livello a un metro. E il maggiore la prese per buona. Senonchè quando arrivò sul posto col tacheometro, non c'era una sola battuta di livello che corrispondesse alla realtà . Pareva che ci volesse far fucilare all'istante, ma poi si calmò. In fondo era un buon diavolo, pieno di sbagliate intenzioni.
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Io fui mandato a Drenava, in alto sopra Fiume da dove si vedeva tutta la città . La maggior parte degli uomini, validi o non validi, erano costretti ad arrampicarsi lassù per scavar trincee e camminamenti in fretta e furia.”
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Re: Fiume: la costruzione dei bunker.

Massimo Btg.Tirà no ha scritto:
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In quel periodo conobbi per ragioni d'ufficio un ufficiale dell'esercito tedesco, il maggiore Ahrens, carico di cicatrici: era un ingegnere molto in gamba, addetto al tracciamento delle fortificazioni più impegnative, come quelle sui boulevard di Susak e sul colle di Tersatto, dalle gallerie e postazioni più complicate della norma. Mi assegnò il compito di rilevare altimetricamente e planimetricamente tutta la collina sovrastante il santuario di Tersatto, per poter tracciare delle rampe sotterranee dalle galleria alle postazioni, sulla scorta di questo rilevamento. Avrei dovuto fare tutto in tre giorni. Chiesi ed ottenni l'aiuto di Lucio. Ci provammo, ma come era possibile tracciare in soli tre giorni delle curve di livello a equidistanza di un metro in una collina tutta stramba, sghemba e stracarica di alberi? Alla fine, avendo rintracciato una vecchia carta quotata della zona, risolvemmo di ingrandirla e di interpolare le curve di livello a un metro. E il maggiore la prese per buona. Senonchè quando arrivò sul posto col tacheometro, non c'era una sola battuta di livello che corrispondesse alla realtà . Pareva che ci volesse far fucilare all'istante, ma poi si calmò. In fondo era un buon diavolo, pieno di sbagliate intenzioni.
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Io fui mandato a Drenava, in alto sopra Fiume da dove si vedeva tutta la città . La maggior parte degli uomini, validi o non validi, erano costretti ad arrampicarsi lassù per scavar trincee e camminamenti in fretta e furia.”
Saluti a tutti da Fiume/Rijeka - Changwon (Korea d. S.)

Si, e' una storia interessante, scritta da Erberto Berti, ancora oggi molto attivo (scrive sia nel Internet che nei giornali, degli esuli e non).
Visto che mi interesso nelle stesse cose (sopratutto le fortificazioni di Fiume, ma anche tutto il Vallo Orientale), l'ho chiesto se si ricorda ancora delle localita', ma lui mi disse che e' passato troppo tempo.
E poi, penso di aver visto quella "carta", con "tutte" le postazioni tedesche durante la battaglia di Fiume del 1945. Anche se dentro sono piu' di 80 dei bunker, non ho visto dentro delle postazioni delle opere italiane - per cio' non sono sicuro che era molto precisa...dopo tutto, le fortificazioni del Vallo a Fiume non erano mai superate - i Tedeschi hanno abbandonato la citta per piegarsi verso Il. Bistrica (Villa del Nevoso).
Come si sa nel questo forum, ho fatto le piante/mappe delle opere del Vallo a Fiume, ma non mi sono mai avventurato nelle gallerie sotto il colle di Tersato (o quelle di Boulevard, o di Torretta). Ho solo delle foto dei "tobruk" tedeschi alle entrate (chiuse).
Allegati
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tersatto1.JPG
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