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PER NON DIMENTICARE

Primo, per non dimenticare:


1920: prima adunata degli Alpini in Ortigara Padre Giulio Bevilacqua cappellano del Btg. Alpini Monte Stelvio Medaglia D'Argento al Valor Militare.
Allocuzione

Alpini! Fanti - Bersaglieri - Artiglieri - Fratelli tutti di passione! Amici che voleste salire con noi il calvario alpino!

Come ieri! Come nel giorno nostro, grande e amaro! Lo stesso cielo; l'identica montagna; un nemico davanti e uno alle spalle un altare, una tomba sola, una solitudine sconfinata.

Come nel giugno imporporato del'17, come nel luglio del '16; mesi di vendemmia per il sangue alpino, quando avemmo ferro per pane, fuoco per bocche senza saliva, sputi per compenso; quando la sera dell'immolazione restammo inchiodati quassù, soli a saporare l'ultimo fiele della bevanda atroce!
E' guardando in questo supremo rifugio spirituale che l'anima alpina ha carpito il segreto per conservarsi calma anche nell'urto delle costellazioni e dei mondi, per mantenersi pura anche sopra nebbie avvolgenti formate d'ogni miasmo, d'ogni sordido tepore saliente dai cimiteri scoperchiati che ormai compongono la vita: delta di cloache, morte mal sepolta, ventre gonfio di putrefazione l'identica sacra montagna; titano della terra lanciato all'assalto del cielo; capo regale che ha insegnato alle fiamme verdi la scienza dell'onore, il sale della vita.

Si può arrestarsi, impallidire, ma piegare, mai. Una tomba sola! Solo qui potevamo celebrare il nostro rito di passione.

Qui dove tutto è stato dato e dove nulla è stato chiesto. Alpini! Superstiti sbandati del gregge di morte! Sentite quello che laggiù gli uomini non possono sentire, perché come i simulacri delle genti hanno gli occhi e non vedono, hanno orecchie e non odono.

Sentite!

Da l'Ortigara abbiamo cominciato la glorificazione del sacrificio alpino. Perché l'Ortigara non è una sconfitta.
Lo fu per chi vide dal basso e da vicino, è l'oggetto troppo addossato a l'occhio ostruisce, accieca.
Lo fu come episodio, come momento isolato di un fatto immenso. Non lo è più nell'oggi che non tramonta, nel tessuto definitivo della civiltà .
Dove il cronista segnava disfatta e supplicava oblìo, Colui che vede dall'alto pronunciò:

Vittoria! e scrisse, primo: per non dimenticare!

Maledetto chi gioca con la parola, con la metafora tronfia e teatrale.
Maledetto chi tenta strozzare, sia pure con cordoni d'oro, la verità . Maledetto colui che costruisce castelli di frasi su la grande tomba.

Ma l'Ortigara non è una sconfitta.

Non vi è sconfitta se non quando qualche cosa di umano è stato smarrito, impoverito, soppresso.
La notte alpina non conosce queste oscurità  perché ignora il disonore.
Per sedici giorni tenemmo testa all'inferno!
Il fuoco, la creatura più terribile e più misteriosa, più indomabile e più libera nelle sue vie, non ha più nulla da dirci; ora la conosciamo come un torrente di morte, come un vento che urla vicino, lontano, esprimente ogni voce, ogni alito, ogni supplica, ogni bestemmia; la conosciamo come logica violenta d'odio che denuda, insanguina, tortura, solleva fino al cielo la protesta torbida della montagna ferita come delle membra mutilate!
Per sedici giorni strisciammo sul ferro e nel fango le nostre carni sbrindellate, rodendo il pane sul ventre dei morti, respirando il loro alito, attirati sempre più in alto, verso le spire più strette, verso il rogo infinito.
Ore impregnate d'eternità  del venticinque giugno, quando neppure la speranza poteva infrangere le porte di questa tragica fatalità !
Totale penetrazione di morte nell'ultimo filo di vita!
Il pericolo non era di morire: era d'impazzire! In una notte d'ottobre, sotto un velario di luce fusa che proveniva da tutti gli abissi di neve che si succedono su l'orizzonte sterminato, proprio da questa trincea nemica, partì un canto, una modulazione nostalgica, lenta, piena di pause, intercalata di silenzi...
Lì di fronte, su la trincea del Campanaro, una vedetta aveva lasciato cadere il fucile singhiozzando disperatamente.
Ai suoi piedi, l'elmo rovesciato su la neve sembrava una colossale orbita nera interrogante. Lo minacciai... Invano!
Eran cateratte irrefrenabili di pianto! Dopo due ore, nella stessa trincea mani di bronzo mi afferrarono.
Era lui!
Mi pareva più alto, più bello, agitato da forze misteriose e non umane... dietro a lui qualche cosa di gigantesco si irradiava perdendosi nelle ombre!
Non chiedo, disse, a l'ufficiale ma al sacerdote... era possibile non sentire?
Era possibile parlare di nemico?

Basta guerre! Basta guerre! Per Cristo!

Per il tuo sacrificio; per la tua fronte che più tardi baciai, irrigidita, nell'infinita maestà  della morte! Perché il sangue non fosse inutile
. La nostra anima non è orientata che dalla vostra tomba. La nostra vita non è che il vostro respiro!
Ciò che il braccio vostro irrigidito interruppe, l'anima nostra compirà  fino a l'impossibile. Basta schiavitù, basta guerra!
Perché niente è impossibile alla fede alpina! Vivere, laggiù, non è facile.
Respirare è un problema.
Ieri maledicemmo la morte perché venne: oggi la malediciamo perché tarda! Avendo conosciuto l'ebbrezza del morire in piedi, non è più possibile addormentarsi nello stupido letto orizzontale della mediocrità  e della vigliaccheria!
Ortigara!
Libro tessuto con gli stracci della carne e con gli splendori dell'anima alpina! I pigmei vollero compire la città  dei giganti e non seppero. Vollero distruggerla e non spostarono pietra da pietra.
Ortigara, sei città  di giganti!

Nulla è possibile aggiungerti, nulla è possibile toglierti

Ortigara! Cattedrale degli alpini!

Momento zenitale del sacrificio umano! Monte della nostra trasfigurazione! Incubo e sogno delle nostre notti! Anima insanguinata dell'umana passione alpina!

Tratto da: Storia della associazione nazionale Alpini pag. 25-26
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Re: PER NON DIMENTICARE

DIARIO DI UN SOLDATO MORTO SUL CARSO

“Chissà  chi eri. Chissà  chi sei.
Chissà  cosa puoi sentire, ora…”
di Monica Zuccato
Treviso

“...06 dicembre 1916...”

Il gelo non regna soltanto nell'aria, ma anche nei cuori di noi soldati: è tempo di guerra qui sul Carso.

Ora è notte e la notte non fa paura a noi soldati; lei scende come una coperta nera a coprire le cicatrici della terra devastata dalle bombe del giorno, come un unguento pietoso sulle rocce concimate di morti e sulle acque dei torrenti ingrossate e rosse del sangue dei caduti.

Noi soldati ci stringiamo nei mantelli laceri dentro le buche, con il fango fino alle ascelle, e ci sentiamo fratelli nell'orrore che ci avvince e scaldiamo i nostri cuori di ghiaccio con brevi frase amiche che il vento, ingolfatosi lungo le trincee, cerca di rubare.

Neppure ci capiamo fra di noi... parliamo tanti dialetti incomprensibili e solo i nostri occhi sono capaci di dire la nostra paura.

Domani sarà  grande battaglia; già  so che all'alba mille e mille di noi fanti si alzeranno in un unico slancio trascinando il proprio corpo carico di stracci ed ossa attraverso la terra di nessuno, sotto un diluvio di bombe e pallottole.

Noi veterani sappiamo che sarà  così perché stasera, dai camion e dai carri, sono state scaricate decine e decine di fusti colmi di acquavite: è la paga di noi soldati che corriamo incontro alla morte.

Perché noi siamo uomini, non eroi.

A noi poveri cani il crepitio dei colpi ci fa tremare come foglie e il fischio delle pallottole fa sbiancare il volto e battere il cuore a mille; a noi ignoranti le strategie militari dicono poco e l'importanza del nostro sacrificio non risulta chiara.

Per questo i Signori Ufficiali, la sera prima della battaglia, distribuiscono bottiglie e quando il liquido rovente brucia la gola spazza via le nostre paure di vigliacchi e annega le nostre coscienze nell'oblio dell'alcool, regalandoci il coraggio dei libri di storia e le gloriose visioni della Patria.

Perché per noi - da sobri - la Patria è la nostra terra, quella terra su cui siamo nati e dove volevamo finire i nostri giorni e, anzi, neppure sappiamo cosa sia la Patria e chi sia il Re.

Il Re … i più fortunati di noi che sono andati a scuola hanno visto la sua figura nel quadro dietro la cattedra della maestra, ma non so perché dobbiamo morire per quest'uomo che ci guarda con occhi severi e non ci dice se darà  lui da mangiare alle nostre mogli e ai nostri figli quando noi non ci saremo più.

Io mai prima d'ora m'ero mosso dai quattro campi in cui ho vissuto e dove ha vissuto mio padre e suo padre prima di lui.

Forse è quella la Patria che sto difendendo... ma è tanto lontana da qua e qui la terra è marcia e senza frutto e l'amico che dorme accanto a me, avvolto nel pastrano nero e sporco, parla un dialetto che neppure conosco ed ha la pelle scura come quella dei diavoli dell'inferno.

O forse la Patria sono le urla degli ufficiali e la bottiglia che stringo tra le mani e che ogni tanto tracanno, e la divisa e il moschetto sporco di terra e sangue che ho buttato di traverso al fosso.

Per questa Patria, dunque, a me o a qualche altro all'alba toccherà  di morire.

Ma l'idea non è brutta se hai lo stomaco pieno di grappa e la mente confusa.

Lungo la fossa scorrono i nostri volti immobili, gli occhi lucidi e fissi che si animano solo quand'è il momento di un nuovo sorso dalla bottiglia.

Forse le guerre le vincono i Generali che hanno più acquavite da dare ai loro soldati.

Mi chiamo Carlo e a casa ho lasciato una moglie e quattro figli: l'ultimo ancora non l'ho visto e talvolta temo che non mi riuscirà  mai di vederlo; ma ora che sono ubriaco vedo le cose in una luce più bella e più buona e sogno che il liquore dentro di me mi renda invulnerabile alle palle di cannone ed ai proiettili dei fucili.

E, giacendo in questo stato, mi pare che il calore che sento dentro provenga dal focolare della mia casa lontana e che questi uomini buttati attorno, avvolti nei loro cenci, siano compagni d'osteria in una serata amica.

Sta quasi sorgendo l'alba... ecco, giungono gli Ufficiali che con grida secche ci ordinano come bestie al macello.

Gli uomini si alzano, molti con ancora le labbra attaccate alla bottiglia, e con bestemmie roche si rassettano i cappotti dal fango e alzano i moschetti.

L'orizzonte lontano comincia ad impallidire, muto.

E' l'ora! Il nostro drappello capeggiato dal tenente scivola arrancando fuori dalla trincea, lanciando un grido che vuole essere di sfida ma suona solo di beffa e di follia da ubriachi.

La corsa è violenta e disperata tra i massi, i greti e le buche dei cannoni, tra i rovi stecchiti e i ruderi e i campi spinati disseminati dei resti delle trascorse, recenti battaglie di cui si è già  smarrito il ricordo.

Il fuoco nemico comincia a crepitare come un'eco lontana... già  i primi di noi cadono schiantati mentre le pallottole fischiano e mordono l'aria.

Anche noi spariamo come impazziti alle ultime stelle che accompagnano la notte morente e corriamo incespicando, in un vortice di ebbrezza ed esaltazione, nel tanfo di sudore, alcool e salnitro bruciato.

Il tenente avanti a noi vacilla e poi cade, pesantemente, nel duro abbraccio della terra. lo e qualche altro ci chiniamo per soccorrerlo e rivoltiamo quel corpo d'uomo con la faccia al cielo e scopriamo sorpresi il suo russare d'ubriaco: non una pallottola, non una scheggia l'hanno piegato, ma un sorso di troppo di grappa traditrice l'ha vinto.

Ci rialziamo e riprendiamo la corsa perché lo scontro s'infittisce, si fa più violento e nessun posto per noi ormai è più sicuro; il rombo della battaglia copre ogni altro suono, anche le urla di paura di quelli di noi che stanotte non hanno bevuto abbastanza per non essere ora vigliacchi.

Uno, due, tanti attorno a me cadono per non rialzarsi, poi giunge il mio turno: la sento arrivare la granata, fischiando, vomitata dalla gola dei cannoni nemici sembra quasi cercarmi per un oscuro destino, sembra quasi che abbia occhi per scovarmi e bocca per gridarmi in faccia la morte.

Atterra a pochi passi da me e lo scoppio mi solleva nell'aria e mi precipita in un fosso, lasciandomi in una posa scomposta, come un pupazzo rotto dalle mani di un bimbo crudele.

Sento delle fitte al petto, ma sorde, lontane, quasi estranee a me che fatico a respirare e tossisco e sento le mie forze abbandonarmi velocemente come le acque che hanno rotto la diga e si precipitano in basso.

Quasi non provo dolore ma ho sangue in bocca e lo sputo, e non sento più le gambe e non oso (né potrei) abbassare il capo per guardare; la morte mi sta vicina (lo so, lo sento!) ma non mi è nemica.

Penso che non vedrò mai il mio ultimo figlio e la mia sposa, nella mia terra lontana, stavolta non ho bevuto abbastanza per essere invulnerabile e…

... Riprendo coscienza e mi accorgo che il sole è ormai alto; sento rumori di guerra lontani ed ovattati; nulla di tutto questo mi interessa ormai.

Anche il mio corpo rotto non mi appartiene: non sento più dolore e voglio solo dormire, sognare.

Sognare mia moglie, i miei figli e la terra che il Re ha voluto togliermi per darmi in cambio una morte assurda.

Sognare di tornare da coloro che amo e rivederli per l'ultima volta prima di partire per non fare più ritorno.

Ora una nebbia rossastra cala a chiudermi gli occhi e il flusso dei miei pensieri vacilla e trema come una candela morente. E' il mio turno, devo andare, addio...

Al diavolo il Re!
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Re: PER NON DIMENTICARE

Ciao Robi, continuo a leggere con piacere e passione i tuoi scritti anche su questo forum. Grazie.
Nostri i silenzi e le cime
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Re: PER NON DIMENTICARE

di Rosa Maria Corti

ADUNATA

Era una formazione straordinariamente compatta quella che in molti videro avanzare nel cielo, a ridosso delle Alpi, in un tiepido mattino d'autunno. Considerata la stagione gli adulti dedussero che si poteva trattare di beccacce, ma i bambini, che hanno la vista più acuta, si accorsero subito che non si trattava di uccelli. Eh sì, proprio così, quella che avanzava verso oriente era un'enorme schiera di copricapo, tutti quanti guarniti da penne nere, (forse erano state proprio queste ultime a trarre in inganno i grandi).
Ora dovete sapere che una bambina, forse più curiosa di altri o, semplicemente, più sola, decise di unirsi a quell'insolito stormo e, prova e riprova, dopo essersi infilata nell'abitino di lana dai mille colori una penna qui e una penna là , (le gazze vanitose le cambiavano spesso nel suo giardino), aperta la finestra della sua cameretta, cominciò a sbattere le braccia nell'attesa di un potente soffio di zefiro, il vento di ponente, che l'avrebbe portata in quota.
Così avvenne e Iris (così si chiamava la bambina che in verità  già  da un po' si esercitava a volare) in poco tempo raggiunse la formazione.
Quando i cappelli la videro non si stupirono più di tanto poiché raramente avevano pronunciato la parola “impossibile”. Uno di loro, in quel momento si trovavano al confine tra Francia ed Italia, a questo proposito, raccontò del suo tenente che, nel lontano 1896, invitato scherzosamente dai Francesi a brindare, con un balzo superò il tetro burrone largo cinque metri che separava le due nazioni; poi, vuotato il calice e salutati militarmente i Chasseurs des Alpes, con una bella rincorsa rifece quel salto incredibile e ritornò sul suolo patrio.
Mentre i cappelli così chiacchieravano amabilmente tra loro e si spostavano verso la Svizzera, Iris guardandosi intorno si accorse che non erano affatto tutti uguali. V'erano, infatti, cappelli di feltro nero di forma tronco conica, guarniti da una fascia di cuoio nero, da una stella a cinque punte di metallo bianco e da una coccarda tricolore; altri, invece, al posto della stella avevano un'aquila incoronata appoggiata su una cornetta sovrapposta a due fucili. La maggior parte però erano di feltro grigio verde con un'aquila in volo ricamata in filo ed una nappina di vari colori: bianca, verde, rossa. Tutti, proprio tutti, avevano una penna nera, in verità  spezzata in due, mozza.
Questo fatto stupì un poco Iris che però non osò fare domande ai nuovi amici sembrandole di essere indiscreta.
Intanto vola e vola i cappelli erano transitati per il passo del San Gottardo, avevano passato lo Spluga e si avviavano a scendere in Valtellina. Il paesaggio era come quello delle fiabe, con i monti incappucciati dalla neve, le baite raggruppate a proteggersi reciprocamente, un laghetto azzurro ed una moltitudine di piccoli fiori che avevano i colori dell'autunno.
I cappelli che avevano il cuore tenero avrebbero voluto raccoglierne un mazzolino e donarlo alla bambina ma non c'era tempo, allora, per consolarla, intonarono una bella canzone che subito il vento, attraverso gole dirupate e balze ripide, portò giù nella valle, disperdendola sui sentieri fino alla pianura. Le parole vennero udite da altri cappelli che prontamente si levarono in volo e si unirono al gruppo. Fra questi ve n'erano alcuni un po' frusti, sfilacciati, bucati e Iris, preoccupata, chiese loro se stessero bene.
“Sai come succede…”, rispose l'ultimo arrivato, “quando nel bosco un tronco pesa e fa male alle spalle, sotto il cappello! Quando sui ripidi pendii pesa la gerla, sotto il cappello! Quando i bambini giocano alla guerra e tutti vogliono fare il comandante ma uno solo è il cappello, chi va di mezzo? Il cappello! Ma non preoccuparti, abbiamo le ossa dure che hanno sopportato ben altre fatiche e sventure.
Poi il cappello tacque. Nella sua mente si erano affacciati tanti dolorosi ricordi: gli automezzi fermi, bloccati dalla neve, le marce a piedi, il gelo condensato in ghiaccioli attorno alla bocca, le incursioni dei carri armati russi, gli scontri tra le isbe, le grida di chi invocava aiuto, la fame, la stanchezza, lo sfinimento…
“Il vecio, il capo, Toni Cantore!”
Queste parole, pronunciate all'improvviso, con foga, quasi gridate, distolsero il vecchio cappello dalle sue riflessioni ed egli, prontamente, si spostò per fare largo ad una “penna bianca” appena arrivata. Era una sorta di leggenda questo cappello e tutti lo guardavano con rispetto.
“Avvanti, avvanti, non perdete tempo a guardarmi, facciamo presto, andiamo!” disse con il suo inconfondibile accento e si mise alla testa della colonna come era sua abitudine di comandante, quando trascinava gli Alpini con l'esempio ed il coraggio.
Sorvolarono l'Engadina, Innsbruck, il Brennero, Bolzano, Trento, Bassano; furono infine a Gorizia, a Redipuglia, il luogo del raduno.
Planarono dolcemente, la penna tesa come una bandiera e si mescolarono a tanti altri cappelli.
“Sono proprio tanti”, pensava Iris, “una massa enorme”.
In effetti, tutti i battaglioni, tutti i reggimenti, tutte le divisioni erano presenti. Qualcuno aveva dovuto volare più di altri (si sa, la steppa russa ed il deserto africano sono lontani) ma erano arrivati tutti ed iniziarono ad avanzare compatti come una valanga.
Sfilarono le penne nere della sfortunata battaglia di Adua; sfilarono le penne nere che furono in Libia sulle brulle colline di Derna, a Sidi Garbaa, a Cirene; sfilarono le penne nere della grande guerra e, mentre i saggi “veci” e gli irruenti “bocia” avanzavano, cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia, lacrime del cielo per coloro che avevano combattuto in mezzo alla tormenta e al rombo del cannone, dopo aver marciato nella neve, trascinato i pezzi dell'artiglieria a forza di braccia lassù dove nemmeno i muli riuscivano ad arrivare, dopo aver trasportato persino i sacchetti di terra per costruire un riparo dove la montagna non ne offriva di naturali.
E mentre il Col di Lana, il Monte Nero ed il Monte Ortigara rivivevano in quei cuori, monumenti perenni ad una storia scritta col sangue su tutte le cime delle Alpi, nel silenzio, davanti all'enorme cimitero di guerra, rimbombò come il tuono della valanga il richiamo del generale Martinat, rivolto agli uomini della Tridentina, della Julia, della Cuneense: “Alpini, con me, avanti”.
E gli Alpini avanzarono con il loro passo eguale, cadenzato, da montanari, ricordando il tremendo fango albanese, il fronte greco, il Ponte di Perati, la Vojussa insanguinata. Passarono quelli del Cervino, più numerosi seguirono quelli del “secondo” Cervino, caduti nella steppa russa, a Rossosch. Passarono i battaglioni del primo, del secondo, del terzo, del quarto reggimento. Passarono i lombardi del quinto, Battaglioni Morbegno, Tirano, Edolo, il meglio delle valli lombarde. Sfilarono proprio tutti e sembravano dimentichi del loro calvario, del gelo, della fame, dello sfinimento, della disperazione, alla ricerca di una via d'uscita dalla maledetta sacca in cui i russi li avevano intrappolati, sembravano dimentichi della prigionia nei lager, del disprezzo del nemico. Si motteggiavano, parlavano di contrabbando, di prati da falciare, cantavano canzoni in cui si mescolavano il dolore, l'amore, la nostalgia della casa, il ricordo di un bacio, della ragazza lasciata in valle, delle battaglie combattute.
Quanti canti ascoltò Iris quel giorno, poi, le voci tacquero, l'adunata terminò e tutti i cappelli si apprestarono a fare ritorno nel “Paradiso di Cantore”. Sapendo che a casa non avrebbe trovato nessuno ad aspettarla (i genitori erano sempre più impegnati dal lavoro), la bambina non voleva rassegnarsi ad abbandonarli. Aveva sentito le loro voci, aveva dato loro un volto, preciso, vero, aveva conosciuto in poco tempo emozioni, sentimenti, parole nuove, il senso della solidarietà .
Si arrovellava il cervello alla ricerca di un modo per rimanere per sempre con loro. Si ricordò che per i suoi amici niente era impossibile e allora con le sue manine si avvinse stretta all'ultimo cappello che si stava levando in volo.
Alla fine il prodigio si compì. Iris sentì il suo corpo bagnato dalla pioggia che diventava leggero, si allungava, si tendeva, si curvava. Chiuse gli occhi e quando finalmente trovò il coraggio di riaprirli si accorse che i suoi piedini erano rimasti sulla terra, lontani, la testa invece toccava le nuvole in cielo ed il suo corpo era un ponte colorato che univa questi due universi.
Iris sorrise mentre il vento asciugava il suo vestitino di mille colori e le sussurrava: “ D'ora in avanti i messaggi degli Alpini sarai tu a portarli a tutti i bambini”.

Racconto pubblicato in “Una fiaba per la montagna” G.S. Editrice 2003
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Andreagenoa
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Re: PER NON DIMENTICARE

Riposto qui, il nome del 1° Capt. Alpino a cui abbiamo dedicato la ns. nuova sede lo scorso Settembre. Gruppo Valverde - Sezione di Genova.

Estratto dello Stato di servizio di Soffiantino Giuseppe, nato il 3 Ottobre 1908 a Genova, distretto di leva di Genova. Ha prestato giuramento di fedeltà  in Torino il 15 Febbraio 1930.

Soldato di leva dal 6 Febbraio 1928 fino al 25 Aprile 1929 presso il Distretto di Genova. Lasciato in congedo illimitato provvisorio per ripresentarsi all'apertura dei Corsi All. Uff. di complemento. Il 31 Luglio 1929 viene iscritto alla scuola di reclutamento Ufficiali di Complemento in Milano, corso di fanteria specialità  alpina.
Inviato in licenza per un mese, viene nominato Sottotenente di Complemento in data 15 Gennaio 1930.
Il 4 Febbraio 1930 viene inviato al 3° Reggimento Alpini per prestarvi il servizio di prima nomina come Sottotenente di Compl. Arma Fanteria.
Il 22 Novembre 1931 risulta nelle forze in congedo del Distretto Militare di Genova.
Il 1 Luglio 1935 risulta Tenente con anzianità  nel Distretto Militare di Genova.
Il 6 Settembre 1939 viene richiamato alle armi per mobilitazione presso il 1° Reggimento Alpini.
Il 25 Giugno 1940 viene inserito nel 1° Reparto Salmerie della 4^ Col. Salmerie della Divisione Alpina “Cuneense” mobilitata l'11 Giugno 1940.
Imbarcatosi a Brindisi il 19 Marzo 1941 ha partecipato dal 29 Marzo 1941 al 23 Aprile 1941 alle operazioni di guerra svoltesi alla Frontiera Greco-Albanese col 1° Reparto Salmerie - 4^ Colonna.
Rientrato a Bari il 19 Maggio 1941, il 12 Gennaio 1942 viene nominato Capitano con anzianità  1 Luglio 1941.
Il 1° Aprile 1942 viene trasferito nel 2° Reggimento Alpini.
Il 28 Luglio 1942 viene inviato in Russia col 2° Reparto Salmerie della 4^ Divisione Alpina “Cuneense”, partecipando alle operazioni di guerra svoltesi contro la Russia fino al 22 Marzo 1943 quando rientra nel campo Contumaciale di Vipiteno.
L'11 Giugno 1943 risulta presente nel Quartier Generale della 4^ Divisione Alpina “Cuneenese” Il 14 Luglio 1945 si presenta al Distretto Militare di Genova ove risulta in congedo dall'8 Settembre 1943 e forza in congedo dal 9 Settembre 1943.

Decorato di Croce al Valor Militare perché :

“Ufficiale già  distintosi in rischiose azioni nel settore di altre G.U. confermava le sue belle doti di fermezza e di coraggio reagendo con azione risoluta, con tenacia ed ardore incurante delle insidie dei partigiani. Manteneva alte le energie dei propri alpini, abilmente guidati attraverso continui pericoli e l'eccezionale rigore degli elementi riuscendo a raggiungere senza perdite, la località  di destinazione.” Fronte Russo, 17 Gennaio - 8 Marzo 1943.

Decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Militare perché :

“Comandante di reparto salmerie di divisione alpina, durante nove giorni di aspri combattimenti contro nemico superiore per uomini e per mezzi, con serena noncuranza del pericolo guidava ripetutamente colonne di rifornimento attraverso zone intensamente battute da micidiale fuoco avversario, riuscendo a far affluire, senza soste, sulla linea di combattimento munizioni e viveri e concorrendo così validamente a sostenere le truppe impegnate nella durissima lotta.” Fronte Russo, 10-20 Dicembre 1942.
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Andreagenoa
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Re: PER NON DIMENTICARE

Il 2010 sta per cominciare e vorrei che tutti non dimenticassimo mai quanto siamo fortunati a vivere in Italia e con tutte le comodità ...

oggi mi è arrivato da un amico questo link :

http://www.youtube.com/watch?v=6RXN44Ut ... re=related

NON DIMENTICARE MAI! Non c'entra con l'alpino in senso stretto, ma noi possiamo/dobbiamo tramandare la storia... "aiutare i vivi, ricordando i morti".

Buon Anno.
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vispateresa
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Re: PER NON DIMENTICARE

Andreagenoa ha scritto:Il 2010 sta per cominciare e vorrei che tutti non dimenticassimo mai quanto siamo fortunati a vivere in Italia e con tutte le comodità ...

oggi mi è arrivato da un amico questo link :

http://www.youtube.com/watch?v=6RXN44Ut ... re=related

NON DIMENTICARE MAI! Non c'entra con l'alpino in senso stretto, ma noi possiamo/dobbiamo tramandare la storia... "aiutare i vivi, ricordando i morti".

Buon Anno.

Andrea, io sono stata in pellegrinaggio a Mauthausen, e ti assicuro che quando esci da quei campi di concentramento hai i brividi in tutto il corpo, le lacrime agli occhi, e sei tutto freddo, di dentro e di fuori......... Vedere quei gradini scavati nella pietra, altissimi, dove i prigionieri dovevano salire portando pietre pesanti, e quelle pseudo/docce che erano poi camere a gas...... non credo che lo dimentichero', mai!!!
Vis

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Re: PER NON DIMENTICARE

IL CAPPELLO DI ANTENORE

E' come un colpo inaspettato e secco allo stomaco, di quelli che lasciano senza fiato e senza scampo. Mi ritrovo improvvisamente scaraventato indietro nel tempo a rivivere fatti così reconditi da non rammentarne ormai quasi più l'esistenza.
Avrò avuto, allora, nove dieci anni. Era una stupenda giornata d'autunno e, dopo il gioioso fervore delle vendemmie, sulla campagna aleggiava un'atmosfera quieta e sonnolenta.
- Ciao Bertino, come t'è andata oggi a scuola? -
Il vecchio Anteriore mi accompagnava così quando, rincasando, lo trovavo seduto sui gradini di casa sua intento ad arrotolarsi l'ennesima sigaretta di "trinciato forte". Orso e un po' tocco, viveva solo, evitato dagli adulti mentre a noi bambini, per farci stare buoni, veniva tenebrosamente evocato come “lupo mannaro”. Ma io, nonostante quella nomea e gli ammonimenti della mamma, non avevo paura di Anteriore. A seconda delle stagioni, le sue mani s'aprivano spesso per donarmi qualcosa: «Tò Bertino ‘na branca de Barese... varda che bei perseghi... bagnete la boca co sto rapet de ua... » e poi ancora pomi e peri e fighi e nosele.
La sua grande casa, che sorgeva solitaria al limitare d'una vigna, aveva conosciuto tempi migliori. Ne facevano fede due pilastroni, avvolti dai glicini, che ne delimitavano l'accesso dalla strada sterrata.
«Bene!» ricordo d'aver risposto quel giorno. «Sai, oggi la maestra ci ha insegnato “Sul cappello”: stiamo facendo le prove per il IV Novembre» e per confermarlo intonai la prima strofa. L'unico occhio buono di Antenore mandò un brillio così insolito che quasi perdevo il filo.
«Continua,» mi incoraggiò «non fermarti!» e intanto ritmava tempo con uno zoccolo. E rideva Anteriore, rideva felice come una pasqua noncurante di mettere in mostra le gengive devastate su cui troneggiava quel suo dentone che tanto intimoriva i miei compagni.
Quando conclusi, con fare fiero ed impettito, esclamai deciso: «Anch'io da grande voglio fare l'alpino!» «Ah, bravo bravo... allora vieni dietro, voglio mostrarti una cosa.»
Incuriosito, posai la cartella al pilastro e seguii la sua scia di tabacco.
Mi condusse nella “ritonda” e dal retro d'un quadretto della, Madonna di Castelmonte sfilò una foto sgualcita. Ne tolse l'opaco velo di polvere strofinandosela sulla manica della camicia e me la porse.
Ritraeva un alpino giovane e sorridente, con una mano teneva per le briglie un mulo maestoso e con l'altra accennava ad un saluto, sfocato e mosso però a causa del movimento troppo brusco per l'obiettivo.
«Questo sei tu?» intuii, manifestando forse troppo apertamente il mio stupore poiché egli annuì con un lieve cenno del capo, quasi vergognoso.
«Se eri un alpino, dov'è allora il tuo cappello? Non te l'ho mai visto!» continuai con la tipica curiosità , a volte involontariamente impertinente, dei bambini.
«L'ho perso... - farfugliò - l'ho perso in battaglia quando ... » «E perché non te ne sei procurato un altro?» incalzai. «Beh, sai... per gli alpini il cappello è qualcosa di sacro, unico, insostituibile come... come ... » «Come il Tricolore?» lo soccorsi nella ricerca del paragone. «Proprio proprio», fece «si vede che sei un bambino intelligente.»
Ormai ero come un pesce ammaliato dall'esca. «Dai Anteriore dimmi, racconta.»
Una pausa. Capii che stava rivoltando le pieghe del suo passato alla ricerca di eventi inghiottiti dal tempo, ma che ora scalpitavano impazienti per uscirne: aspettavano solo il momento buono e io l'avevo innescato.
Alzò lo sguardo e lo puntò lontano lontano. Ed e gli si ritrovò ancora là .

E IO ERO LA' CON ANTENORE. PRESENTE
Dopo la resa della Grecia, il nostro reggimento decimato sul Tomori, fu trasferito nei pressi di Tirana in attesa del sospirato rimpatrio.
Finalmente assaporavamo attimi di pace e si passava il tempo a rileggere per la centesima volta la lettera giunta da casa o a fare progetti per il futuro mangiandosi con gli occhi la foto della “morosa”. Ma all'imbrunire, quando attorno al fuoco cantavamo sommessamente «Sul ponte di Perati», la voce s'incrinava al ricordo dei tanti amici, troppi, che erano rimasti lassù.
Arrivò il sospirato ordine: «Affardellare lo zaino. Prepararsi in colonna. Salmerie in coda».
Tutte le nostre voci s'unirono in un urlo liberatorio. Finalmente a casa! Altro che casa: 350 km a piedi verso nord e ci trovammo in Jugoslavia.
«Che ci facciamo qui?»chiedevamo smarriti.
«Combattere i ribelli slavi.» Imprecazioni sacramenti bestemmie.
Ancora guerra. Ancora morti. A chi sarebbe toccato stavolta? Sono sommerso da un lacerante senso d'angoscia, quasi premonitore.
E se toccasse a me, chi penserebbe al miei vecchi nel momento del bisogno?
Chi li aiuterebbe a mietere il frumento, a sarchiare il granoturco, a falciare l'erba, a potare le viti e vendemmiare?

E IO ERO LA' COSTERNATO
Piantiamo le tende in una radura soleggiata al limitare d'una fitta macchia di faggi che dominava il corso tortuoso d'un fiumiciattolo, in quei giorni rapido e spumeggiante per le abbondanti piogge primaverili.
In lontananza un bianco abitato su cui vigilava un esile minareto.
«Attrezzi alla mano!» Con fitto volteggiare di picconi e vanghette alziamo un terrapieno difensivo tutt'attorno al campo e ci sentiamo più sicuri.
Inoltrandoci in quei luoghi dalla bellezza selvaggia, infatti, avevamo il netto sentore della vicinanza fisica del nemico come se ci seguisse, spiasse, studiasse il momento propizio per sorprenderci ed annientarci.
Scaccio i cattivi presagi, prendo dallo zaino la biancheria sporca e scendo al torrente. L'invito dell'acqua fresca e chiacchierina è irresistibile e così vi immergo i piedi, gonfi e arrossati per l'estenuante trasferimento.
Me ne sto lì a godermi quel sollievo fumandomi una bella "milit"

E IO ERO LA' CON ANTENORE. BEATO
quando uno schizzo d'acqua gelida mi sferza il viso.
«Ehi,» inveisco «no sta romper le ... » ma appena scorgo chi è stato la stizza si tramuta in sorriso. E' Mario, un compaesano che fin dalla Campagna di Francia divide con me la tenda e la pagnotta.
- Ma dai ‘Ntenore, no sta far la toseta Dio bono! - sbotta.
Mi si siede accanto e gli passo una sigaretta. Ogni tanto, nelle anse del torrente dove l'increspatura della corrente era più calma e trasparente, c'era un lampo argenteo a fior d'acqua: il riflesso del dorso d'una trota che subito riaffondava con un guizzo repentino di pinne.
«'Ntenore,» mi fa Mario «te ricordetu che nogade che se fea sul Meschio? E quela volta che avon pescà  col carburo? E quando che se ‘ndea, sconti tra le cane, a vardar le gambe de le femene che le lavea sul lavador? E quel dì che ... »
Quanti ricordi. Come potevo dimenticare quel giorni spensierati, la mia casa, il paese, il fiume... me li sognavo tutte le notti e il cuore lacrimava.

E IO ERO LA'. MALINCONICO
Con il morale sotto i tacchi, raccolgo le mie robe e risalgo il pendio. L'erba fiorita emana fragranze intense. Trovo un posto appartato. Con in bocca lo stelo d'una margherita, mi godo il sole appoggiato ad un muretto a secco e intanto osservo le evoluzioni di due bianche farfalle che si rincorrono da una corolla all'altra. Da una fessura s'affaccia timidamente una lucertola e, dopo due guizzi sospettosi della testolina, se ne resta anch'essa a gustarsi quel tepore. La nostalgia mi prende. Socchiudo gli occhi e mi ritrovo a casa, al Pian de le Cesure, un ampio pascolo alle falde del Pizzoc contornato da un muretto come questo, risultato del lavoro di intere generazioni costrette, per sopravvivere, a rubare alla montagna ogni singola zolla. Proprio da quel costone, un bel mattino, forando gli umori appena velati della pianura, scorsi con emozione ciò che andavo cercando da sempre: sospesa come un miraggio sull'orizzonte, la macchia diafana e rosata di Venezia!

E IO ERO LA' CON ANTENORE. INCANTATO
«Tu Antenore» - era il sergente - «farai il terzo turno di guardia stanotte.»
L'attesa è snervante, il dormiveglia agitato e pieno di incubi.
Un colpetto alla spalla mi scuote: tocca a me. Ora mi trovo solo, avvolto dalle tenebre. Nella notte, il sonno del bosco è attraversato da mille fruscii e sussulto ad ogni intreccio d'ombra, ad ogni goccia di rugiada che schiocca sul terreno, ad ogni serenata di grilli bruscamente interrotta, ad ogni frullo d'ala. Tendo spasmodicamente l'orecchio cercando, tra tutti i frastagliati respiri della natura, di isolarne il "loro" prima che sia troppo tardi. Mi vengono in mente le voci raccolte sulla bellicosità  degli slavi e sulle atrocità  che fanno a chi ha la sventura di cadere vivo nelle loro mani. Un brivido mi corre giù per la schiena facendomi accapponare la pelle.
«Ave Maria... ti prego, fa che non tocchi a me. Ave Maria ... »

E IO ERO LA' CON ANTENORE. SFIBRATO
Il tempo, scandito dal pulsare affannato del cuore, sembra non passare mai. Comincia a schiarire. Sopra i crinali si vedono nubi rosate che il vento, come per noi il destino, raggrumava o sfilacciava a seconda dei suoi imperscrutabili capricci. Uno spizzico di luna s'affaccia sopra le chiome degli alberi proprio nel momento in cui colgo un movimento, furtivo e raggelante, alle mie spalle.
«Alt! Alt!» grido in preda al panico. «Tasi mona!» sibila il sergente.
Mai offesa fu più gradita. Spossato, me ne torno in tenda.
«Sta attento a dove te mete i piè» protesta qualcuno.
La testa mi martella e non riesco a prender sonno. Fuori, a salutare l'alba, è esploso un assordante concerto d'uccelli d'ogni specie. Questo è il merlo, questa la lodola, questo il cardell... Il silenzio cala come una mannaia. L'attacco è improvviso e devastante. Colpi d'artiglieria e raffiche rabbiose di parabellum squassano il campo. L'aria è solcata dalle traccianti e si respira l'acre odore della paura.
«Gesùgiuseppemaria qua i ne copa tuti!»La confusione è totale. Tra gli scoppi s'odono grida richiami gemiti. Dopo il primo sbandamento, i nostri mortai con bordate precise alzano un argine invalicabile di fuoco e l'infiltrazione nemica viene dapprima smorzata, poi bloccata e infine respinta. E il momento del contrattacco. «Alpini avanti! Savoia!»
Saltiamo urlando il terrapieno sparando a bruciapelo contro ombre che si tuffano al riparo degli alberi. Improvvisamente una vampata accecante e assordante ci avvolge in un turbinio di schegge e sassi. Quando il polverone si posa, la visione è agghiacciante. Alcuni corpi giacciono al suolo, scomposti e fumanti. Il sergente sta supino con le braccia aperte, come un Cristo in croce, colpito in fronte. Poco discosto uno slavo, piegato sul fianco, dà  flebili segni di vita. Con una mano stringe ancora l'arma, con l'altra si comprime il ventre slabbrato da cui scivola un che di informe e viscido. E la prima volta che vedo il temuto nemico così da vicino e mi stupisco che non abbia le parvenze di un mostro. E un uomo, anzi un ragazzo, che scosso da spasmi lancinanti comincia ad emettere un rantolo disperato che mi buca i timpani e mi trafigge il cuore.
«Maaa.... aaa Ma...maaa Maaaa... «Ci guardiamo negli occhi, stravolti. «Mariavergine», fa uno «al ciama so mama come noialtri.»
Allora Borlotto, uno scontroso boscaiolo cadorino così forte da portarsi a spasso un mulo sulle spalle, avanza carponi fino al moribondo e comincia a carezzargli il capo, dolcemente amorevolmente maternamente.
«Maaa... maaa» «Son qua» e se ne sta allo scoperto, incurante del pericolo.
«Maaa... maaa» «Son qua, bocia» e piange quel colosso, piange come un bimbo.

E IO ERO LA' CON ANTENORE. COMMOSSO
La battaglia è finita, nella valle ristagna un cupo silenzio di morte. Abbiamo perso altri 14 amici, ma non c'è tempo per piangere né per pregare.
Disposti a raggiera risaliamo in perlustrazione il greto del torrente. Dietro un cespuglio noto qualcosa: è un berretto di panno scuro con una vistosa stella rossa. Un corvo s'alza in volo lanciando un gracchiare spaventato... naufragai nel silenzio e nel nulla.
Mi risvegliai dopo tre giorni all'ospedale da campo. Seppi poi che cademmo in un'imboscata e io fui il primo ad essere colpito, qui sopra l'occhio, vedi la cicatrice? Privo di sensi caddi in acqua e se non era per Mario che mi afferrava per la collottola chissà  dove sarei finito.
Il cappello, il cappello però...
«Roberto. Roberto dove sei? è mezz'ora che ti cerco da tutte le parti!»
«Porca miseria, mia mamma. E com'è incavolata!» esclamai preoccupato.
Passando per la strada, ella aveva visto la mia cartella appoggiata al pilastro ed ora si stagliava sull'uscio con intenzioni fin troppo evidenti. «Fila a casa, con te farò i conti dopo!» Non me lo feci ripetere due volte e sfrecciai fuori come un razzo con la foto ancora in mano, in quel momento avevo altri pensieri che restituirla. «La me scuse siora Giovanna, l'è tuta colpa mia, stavo ... » intervenne Antenore in mia difesa. Mia madre non gli diede il tempo di continuare.
«E tu, vecchio ubriacone rimbambito», lo aggredì «non permetterti più di parlare con... (ciò non le impedì, mentre le passavo accanto, di rifilarmi un tal manrovescio da lasciarmi il segno delle cinque dita per una settimana)... con Roberto. Non voglio che tu gli riempia la testa con storie da osteria, capito?!»
Correndo, mi girai per un attimo. Impressa mi rimane l'immagine di Antenore: curvo, a capo chino, i lineamenti scabri scolpiti nell'umiliazione.

E IO NON ERO LA' CON ANTENORE.
Quanti anni sono passati da quel giorno? Quasi quaranta e ora mi ritrovo nuovamente in mano questa foto ingiallita, sbucata fuori chissà  come nel riordinare le cianfrusaglie accatastate in soffitta.
Cosa è rimasto di te, vecchio Antenore?
Non discendenti diretti; non la vecchia casa né i pilastri abbattuti per lasciar posto ad una superstrada; non il pascolo al Pian de le Cesure sepolto dal rovi e nemmeno i suoi muretti antichi, testimoni silenziosi di miserie e fatiche, ormai crollati sotto l'avanzare del benessere.
Niente, solo un disadorno loculo nell'angolo più nascosto del cimitero.
Il questo il premio per l'occhio orbo, per il cervello bevuto, per gli affetti negati, per gli anni migliori strappati via assieme al tuo cappello?
Povero Antenore, sputato come un osso di ciliegia fuori dai vincoli sociali; defraudato di ogni dignità  civile della nostra indifferenza; vigliaccamente colpito alla schiena da un nemico annidato in casa, più infido dello slavo, solo perché si doveva cancellare dalla memoria quella infausta guerra di regime dall'epilogo tragico e per giunta fratricida.
Povero Antenore, sacrificato (e quanti come lui?) sull'altare di nuovi Del, spietati e crudeli, che non conoscono né Patria, né Bandiera, né Ideale, né Onore, né Riconoscenza, né Pietà .

E IO NON ERO LA' CON ANTENORE.
La coscienza m'inchioda gravato da dolorosi ricordi-rimorsi. Troppo tardi! Troppo tardi per rimediare, ma non per cercare, almeno, di rivalutare il calvario di un'intera generazione di Italiani chiamati a pagare un conto durissimo alla Storia per la nostra emancipazione democratica. Guardo la foto. Mi saluta Antenore con quel suo gesto rapido e sfocato.
«Ciao Bertino ... » mi par d'udirne ancora la voce arrochita dal fumo.
«Ciao Vecio, spero che lassù, nel Paradiso di Cantore, tu l'abbia ritrovato il tuo cappello, ora. PER SEMPRE.».

Giorgio Visentin
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Re: PER NON DIMENTICARE

Grazie Rib.
E' strano oggi non ho usato la saldatrice ma ho gli occhi che mi bruciano.
Obbligherei i vari personaggi televisivi e qualche ( tanti ) politici a leggere quando dicono di vergognarsi di essere Italiani o offendono il Tricolore.
Ci sono 3 regole per affrontare un nemico.
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2° non aver paura
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Re: PER NON DIMENTICARE

Grazie Rib. Bellissimo e commovente racconto, Sono perfettamente d'accordo con quanto detto da Petrer62.
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Re: PER NON DIMENTICARE

dal sito ana.it

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Nelson Cenci è andato avanti

Un grande alpino, un amico, se n’è andato. Nelson Cenci è morto questa mattina, aveva 93 anni. Era nato a Rimini il 21 febbraio 1919. Partecipò giovanissimo alla guerra in Montenegro con la “Julia” e nel 1942 in Russia con la Tridentina, come comandante di plotone della 55ª compagnia del battaglione “Vestone”, dove venne gravemente ferito e si guadagnò sul campo una Medaglia d’Argento al Valor Militare.

Al termine della guerra riprese gli studi, si laureò in Medicina e Chirurgia specializzandosi in otorinolaringoiatria. Ricoprì incarichi come primario ospedaliero, docente all’Università di Varese, curando svariate pubblicazioni scientifiche.

Scrittore e poeta, ha pubblicato molti libri sulla sua esperienza in guerra e sulla naja alpina. L’amore per il cappello alpino lo ha portato nel cuore per tutta la vita, quando poteva era sempre con le penne nere, alle Adunate nazionali alle quali non mancava mai, agli incontri con le scuole dove i più giovani ascoltavano rapiti i suoi racconti.

Accoglieva tutti con il sorriso e parlava con semplicità e schiettezza. In un’intervista recente aveva detto: “Spesso mi soffermo a guardare la natura che ci circonda, e al suo cospetto penso che gli uomini siano una presenza effimera. La vita in fondo è così breve. Quando uno scompare, dopo poco nessuno più lo ricorda. Questo mi porta molta malinconia. A volte penso che – dei miei colleghi all’ospedale – sono l’unico rimasto. (…) Chi è che ci ricorda? Chi ricorda il passato, adesso?”.

Noi alpini non ti dimenticheremo, ciao Nelson…

I funerali si svolgeranno a Cologne (Brescia) mercoledì 5 settembre alle ore 14,30.
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m57
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Re: PER NON DIMENTICARE

avevo giusto letto il suo "il ritorno" all'inizio anno...

una considerazione: il btg Vestone ci ha dato ben 3 scrittori: Rigoni Stern, Moscioni e appunto Cenci.
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Re: PER NON DIMENTICARE

m57 ha scritto:avevo giusto letto il suo "il ritorno" all'inizio anno...

una considerazione: il btg Vestone ci ha dato ben 3 scrittori: Rigoni Stern, Moscioni e appunto Cenci.
E Danda, vicentino, classe 1921, Aosta '41, della 54^ Compagnia, con il suo Vistù.
Viene pure citato nelle opere sorelle degli altri.
Dopo l'8 settembre divenne comandante partigiano nella Lessinia orientale, con nome da battaglia "Vestone".
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m57
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Re: PER NON DIMENTICARE

E Danda, vicentino, classe 1921, Aosta '41, della 54^ Compagnia, con il suo Vistù.
non lo conosco, vedrò di colmare al più presto la lacuna

grazie dell'informazione :-)(-:
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Re: PER NON DIMENTICARE

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